Quando l’amore incatena: il vittimismo come forma di violenza

da | Feb 19, 2024 | Psicosintesi

La violenza si fa solo col fucile?
E perché? La violenza docile, la violenza non aggressiva, la violenza di chi non ce la fa a stare sola…
La violenza di quegli occhi che fanno finta di dire: “tu puoi fare tutto…” ma non è vero… Non posso fare tutto… Non posso andarmene via perché tu mi ricatti con il tuo dolore assurdo… scusa mi ricatti col tuo grande amore…
Appena uno ama così, scappa! Non è mica gratis…

Giorgio Gaber

Gaber, il genio che incontra la dinamica delle ferite primarie. L’arte e la bellezza di raccontare il dramma dell’animo umano con semplicità e puntualità.

La dinamica amore-dipendenza-vittimismo

Questo monologo di Gaber spiega con semplicità ed estrema precisione la dinamica amore-dipendenza-vittimismo.

Occorre fare un distinguo di base: la “vittima” non è il “vittimismo”. La vittima è la parte lesa che necessita di ascolto ed è l’unica che può raccontare la propria storia e il suo dolore; va opportunamente ascoltata e valorizzata per poterla aiutare, la vittima non può tacere poiché nel silenzio si alimenta e si protrae la sua sofferenza. Il vittimismo invece è un comportamento continuo e subdolo attraverso il quale ci si identifica costantemente in una parte lesa che deve essere salvata, o accudita, perchè in situazione di svantaggio emotivo o materiale che sia.

La vittima come forma di violenza

Fare la vittima a oltranza è una forma di violenza, ed è lì che diventa vittimismo.

Così come incarnare il ruolo del salvatore benevolo o del compagno super amorevole… Il troppo amore, la troppa attenzione, la troppa premura, la richiesta costante di vicinanza, di compagnia, di condivisione, sono gli atti carnefici che imprigionano l’altro nel senso di colpa, e nel dovere di sostegno costante.

Fa sentire sbagliati e incapaci di amare: non si è mai all’altezza di chi afferma che ci ama troppo, non si è mai in grado di saziare quella richiesta costante di attenzioni e soprattutto impedisce di essere se stessi e di avanzare i propri bisogni, le proprie emozioni e le proprie sensazioni.

L’amore vittimistico e il ricatto affettivo

In realtà è quel troppo amore del partner, del familiare, dell’amico o amante che sia, che è vittimistico al fine di tenere l’altro attaccato a sé. È un vero e proprio ricatto affettivo: “se mi ami e mi vuoi bene devi essere come dico io”, oppure ancora “siccome io ti do tanto, tu mi devi dare altrettanto”. Oppure ancora “io ci sono sempre per te perché ti voglio bene, anche se tu non ci sei e non vuoi perché io ti capisco e allora ti aspetto”. Tutto questo “pseudo-amore” ha un prezzo: quello della propria individualità, della sopravvivenza del proprio Io.

Chi vive relazioni di questo tipo, spesso lo fa inconsapevolmente. E anche se uno dei due è maggiormente sottoposto alle richieste di attenzioni e cure, in realtà è egli stesso nella medesima dinamica inconscia. Vale a dire che una parte di sé è in accordo, sotto la soglia di coscienza, con quel tipo di relazione, con un amore che si basa sul contratto dare e ricevere e con termini precisi. Tutti e due concepiscono la relazione come fonte di unica e fondamentale soddisfazione, della propria felicità e il proprio benessere, sono dipendenti da quanto l’altro soddisfa le aspettative e i bisogni richiesti. Entrambi però, hanno imparato ad amare così, sono uno lo specchio dell’altro.

Le origini dell’amore vittimistico

Quel poco di amore che gli è stato dato fin dai primi anni di vita era vincolato alla rinuncia di se stessi. Per ricevere attenzioni e amore, hanno messo da parte la loro individualità, i loro bisogni di bambini, la manifestazione della loro spontaneità e della loro essenza, per accomodare un adulto di riferimento in difficoltà e aiutarlo a sostenere e tollerare il proprio ruolo di genitore.

Anche i genitori sono in difficoltà nell’accudimento dei propri figli, soprattutto se sono soli. Quella difficoltà nasce non solo da problemi pratici ma soprattutto dall’essere stati, a loro volta, bambini poco amati da un punto di vista affettivo (non da un punto di vista materiale).

Ciò che ci rende abili nell’arte di vivere è l’accudimento, l’affetto, il contatto e la connessione amorevole col genitore nei primi anni di vita. Talvolta una simile base sicura consente di affrontare le sfide più difficili perché dentro di noi resta comunque un’esperienza di solidità, di forza instillata dallo sguardo amorevole e costante dell’adulto, e di diritto di esistere ed essere.

La via per un amore sano

Per uscire da questo meccanismo occorre:

  1. interrompere lo schema adattivo del dare/avere e dell’essere “dueinuno” (proprio della fase intrauterina)
  2. sviluppare l’autonomia e riconoscersi come individui interdipendenti e non dipendenti.

Questi sono i passi per un amore sano che riconosca in primis l’altro senza volerlo modificare. Un amore che non investe l’altro della responsabilità di darci ciò che ci è mancato fin dall’inizio della nostra vita. Questo amore nasce da una ricerca di equilibrio costante tra la propria autonomia, la propria identità e il bisogno di relazione.

È sempre l’amore che ci costringe a trovare soluzioni alternative di fronte al desiderio di mantenere in vita una relazione cercando di soddisfare tutti i bisogni presenti. Ad un certo punto si arriva a riconoscere che il primo vero amore sei tu e per stare con l’altro occorre innamorarsi di sé, anche rischiando la relazione. Volersi tanto bene da comprendere se stessi nei propri limiti e guardarli con tenerezza, accogliere quelle necessità primordiali inconfessabili come il bisogno di tenerezza o di contatto fisico e di presenza costante, imparare la differenza tra ciò che erano le necessità di quando eravamo piccini e quelle di un adulto e soddisfarle da soli, senza obbligare l’altro a compiere ciò che non ci è stato dato. Solo così possiamo stare in una relazione autentica e creativa, amandoci e camminando insieme, ognuno assolvendo per sé quegli atti di amore incompiuti nell’infanzia.

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